Articolo

LA TRAGEDIA DEL GLENO NELLE PAROLE DEL CUSTODE

28 Novembre 2013 / 13:56
0
0
1884
Scritto da Redazione Orobie
Articolo

LA TRAGEDIA DEL GLENO NELLE PAROLE DEL CUSTODE

28 Novembre 2013/ 13:56
0
0
1884
Scritto da Redazione Orobie

Quelli de L'Eco di Bergamo furono tra i pochi giornalisti ad arrivare nei luoghi devastati dal crollo della diga del Gleno. I loro racconti furono pubblicati nei giorni successivi alla tragedia. Il direttore di Orobie, Pino Capellini ha raccolto i brani più significativi in questo articolo .

 

Il custode: «Cadde un sasso. Ho visto squarciarsi l’arcata»

«Ad un tratto egli udì un “cium”: dall’alto della diga una pietra era caduta in una pozza d’acqua». Incomincia così la drammatica testimonianza che un giornalista de L’Eco di Bergamo raccolse il 4 dicembre 1923 direttamente dal guardiano della diga sotto i cui occhi avvenne la tragedia. Pochi secondi: da quel sasso che si stacca e piomba dall’alto allo sbarramento che cede di schianto e una enorme fiumana spazza la valle di Scalve. Il finimondo.

Erano trascorsi tre giorni dalla tragedia. Di buon mattino quel giornalista lascia il fondovalle e si avvia verso il luogo dove ha avuto origine il disastro. I soccorritori si aggiravano nell’immane rovina, i feriti erano già stati tutti trasferiti all’ospedale, si cercavano i corpi delle vittime nella distesa di fango e di detriti. Sul posto era già stato re Vittorio Emanuele. Era sceso in auto dal passo della Presolana perché altra strada d’accesso non esisteva più: per lunghi trattila Via Malaera stata distrutta dal tremendo maglio dell’acqua che trascinava massi grandi come case. Anche per le difficoltà di arrivare in valle i giornalisti, dagli inviati dei grandi giornali ai cronisti, non erano molti.

Mobilitazione

L’Eco di Bergamo doveva aver mobilitato l’intera redazione, dal direttore don Clienze Bortolotti ai giornalisti e ai collaboratori. I pezzi firmati sono pochi. Si riconosce la sigla del direttore (D. C. B.) e una firma già nota ai lettori del quotidiano, Gian Battista Pesenti, capocronista; sul posto c’è anche un altro dipendente del giornale, Beretta, addetto all’amministrazione ma, all’occorrenza, redattore. Non si sa invece chi sia il cronista che sale fino alla diga e che firma con la sigla a. r. p. il suo testo, datato Bueggio 4 dicembre. Lo troviamo in prima pagina d’apertura al giornale del giorno dopo, mercoledì 5 dicembre, con il titolo: «Sulle tracce della valanga sterminatrice», accompagnato da una immagine in cui si vedono i due tronconi dello sbarramento sfondato che si stagliano tra i fianchi della montagna sbiancata dalla neve caduta abbondante il giorno prima.

Il cronista sicuramente conosceva già i luoghi. Si avvia tutto solo – non fa cenno di essere accompagnato da qualcuno – rifacendo a ritroso il percorso della massa d’acqua che ha spazzato via tutto, modificando a fondo il paesaggio. La sua è una cronaca puntuale, senza alcuna enfasi, che merita di essere letta per rivivere quei momenti. «Mentre, di buon’ora, le squadre di soccorso riprendono febbrilmente il lavoro, lascio il desolato paese di Dezzo e mi incammino lungo il letto sconvolto del torrente omonimo, rifacendo a ritroso la via percorsa dalla precipite e spaventosa valanga d’acqua. Il valloncello della larghezza di pochi metri, in fondo al quale scorreva già gorgogliando il Dezzo, è ora trasformato in un selvaggio vallone largo in certi punti oltre cento metri, tutto cosparso di detriti, di massi e di fango».

Il nostro cronista individua il passaggio tra tanta rovina, passa sotto Vilminore e Bueggio e punta decisamente verso l’alto risalendo la valle del Povo. Dopo circa tre ore eccolo davanti alla diga. Il colossale sbarramento presenta una enorme breccia di un centinaio di metri: «Alle due estremità rimangono intatti alcuni piloni con i sovrastanti archi. Il primo crollo si sarebbe verificato al quattordicesimo pilone».

Sul posto erano già stati numerosi tecnici, tra cui anche il progettista, ma non risulta che ci siano resoconti di altri giornalisti. L’autore dell’articolo scova sui pressi della sua «capanna-rifugio, che sorge un po’ più a monte degli sbarramenti del grande bacino», il guardiano della diga. Si chiama Francesco Morzenti, di Teveno, ed ha assistito al crollo. Anzi, lui si trovava proprio alla base della grande muraglia dell’invaso e l’aveva vista squarciarsi di colpo con i pochi segni premonitori della caduta di un paio di massi. Verso le 7 – inizia il suo racconto – aveva ricevuto una telefonata dal direttore della centrale di Bueggio, Daniele Piccoli. Doveva regolare l’afflusso dell’acqua nelle condotte per mettere in azione le dinamo. Il guardiano era sceso ai piedi dello sbarramento per raggiungere i meccanismi da mettere in azione.

Ed ecco che il giornalista de L’Eco entra in presa diretta sulla base del suo racconto: «Ad un tratto egli udì un “cium”: dall’altro una pietra era caduta in una pozza d’acqua. “Strano! – pensò il guardiano. – Che ci sia qualcuno sulla cima del muraglione?”. Dopo pochi attimi un secondo masso si staccò dall’alto dlela diga e precipitò nella pozza d’acqua». Un altro «cium!».

«Il Morzenti, sorpreso, guardò in su e vide che si era aperta una fenditura in una delle arcate centrali e l’acqua cominciava a gorgogliare. Intuì il pericolo, si lanciò con una corsa folle e disperata sopra un lato della valle, mentre intravedeva che uno dei piloni di centro cedeva ruinando alla enorme pressione delle acque del bacino, trascinando con sé quasi tutta la diga».

Prosegue il racconto del giornalista: «I piloni e le arcate, legati tra loro da una salda armatura di ferro, quando cedevano da quel primo pilone in ruina, diedero al guardiano l’impressione “come l’aprirsi di un libro”. L’ingente massa di acque contenuta nel bacino si riversò lungo la valle del Povo come una gigantesca valanga». E il guardiano? Il suo intuito gli aveva salvato la vita. Dopo la fuga verso l’alto, una volta fuori dalla portata del disastro si lasciò andare come privo di sensi; così lo trovarono gli operai addetti al bacino e scampati grazie al fatto che, non ancora iniziata giornata di lavoro, si trovavano nelle baracche riparate dietro uno sperone di roccia.

Quella campana

L’articolo non si esaurisce qui. Anzi, continua con altri particolari sui drammi e le devastazioni della massa d’acqua nel suo inarrestabile cammino. Il borgo di Bueggio si salverà grazie a una sporgenza del monte che gli fa da riparo pur venendo danneggiate tutte le abitazioni, ma le acque risalgono su per il monte e si portano via una stalla sulla sinistra del torrente Povo. C’erano dodici mucche alle quali il proprietario, Giovan Maria Duci di Bueggio, alzatosi di buon mattino come al solito, stava accudendo. Sarà la prima vittima. E non scampa nemmeno il campanaro della chiesa parrocchiale. Era da poco terminata la prima Messa e Pietro Duci era salito sul campanile per regolare le ore. I testimoni raccontano che chiesa e campanile furono investiti in pieno dallo spostamento d’aria che precedeva la massa d’acqua. Un turbine d’una forza spaventosa: addirittura il campanile fu stroncato e portato via con le campane alzate verso il cielo in un ultimo drammatico squillo. Poi tutto sprofondò.

Don Bortolotti

È invece il capocronista Pesenti in un articolo che porta le sue sigle a dare le prime notizie direttamente dalla valle di Scalve. Al diffondersi in Bergamo di ancora sommarie e confuse informazioni sulla tragedia il direttore de L’Eco di Bergamo don Bortolotti accompagnato da Pesenti e da Beretta era andato in auto verso la valle Camonica avventurandosi tra le rovine che la massa d’acqua scesa dalla valle di Scalve aveva provocato anche laggiù: paesi distrutti, centinaia di vittime, strade e ponti trascinati via. Impossibile proseguire. Nella tarda serata il direttore de L’Eco era rientrato a Bergamo, mentre Pesenti aveva risalito la valle Seriana fino al passo della Presolana sotto una fitta nevicata. I carabinieri avevano creato uno sbarramento ed era impossibile passare. Solo il giorno dopo, all’alba del 2 dicembre, era riuscito a proseguire scendendo a piedi tra grandi difficoltà fino al ponte del Dezzo. E del Dezzo, il Dezzo di Colere, non c’era più niente: «Oggi non vi è che una sporgenza, un costone di roccia nuda, lucida». Si scorgevano le le rovine di un paio di case, dei 180 abitanti gli scampati erano poco più di una decina. Ed è ancora Pesenti a raccogliere una testimonianza che condensa in poche parole il terrorizzante spettacolo che si presentò agli occhi.

Pino Capellini