Articolo

Il silenzio ovunque, a quote medie

06 Ottobre 2020 / 00:02
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Scritto da Matteo Zanetti
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Il silenzio ovunque, a quote medie

06 Ottobre 2020/ 00:02
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Scritto da Matteo Zanetti

In questo periodo si fa un gran parlare di buon senso. Cosa vogliono dire queste due parole? Usare bene i propri sensi? O forse usare bene quel sesto senso che distingue gli uomini dagli animali? Oggi il buon senso della società ha completamente dimenticato il buon senso verso i singoli che la compongono. Verso quell’unità fondamentale che dovrebbe essere il motore della crescita sana. Così facendo molti sono stati condizionati da questo annebbiamento umano, tanto da dimenticare il buon senso verso il prossimo e verso ciò che veramente rende ciascuno di noi un miracolo terreno. Ora che la società sembra non avere più bisogno di “miracoli umani”, ma solo di menti e braccia forti.

La stessa società che ha perso il buon senso anche verso il suo mondo, la nostra Terra. La nostra casa che potrebbe essere arredata come preferiamo, ma di cui non è possibile ignorarne l’equilibrio delle sue, e nostre, fondamenta. Un equilibrio che vivrà sempre e sfratterà i suoi piccoli ospiti, se irrispettosi. Così i problemi permeano ogni parte del mondo e dei suoi uomini. Perché una società che si crede tanto potente da provocare l’ordine naturale, non potrà nulla contro la sua ira incontrollata. Cosi ogni sforzo è solo dolore per le sue potenze improvvisamente inermi. Come uno zoppo ai piedi di una montagna.

Questa è la storia di un piccolo viaggio, fatto di molto buon senso umano ma poco buon senso sociale. Un viaggio tanto piccolo quanto scomodo, nel senso più moderno del termine. È un ritorno alla semplicità delle cose e della mente.

Ripulito tutto al lavoro, il ritorno a casa in macchina era stato come sempre veloce. L’orologio segnava le 21 e con calma mi misi a sistemare le ultime cose nello zaino. Qualcosa da bere e da mangiare, le luci per la notte, il pacchetto di tabacco. Legato per ultimo il sacco a pelo lo zaino sembrava pesare più del dovuto. “Davvero servono tutte queste cose in ventiquattro ore di vita?”, pensai.

Racchette alla mano e luce frontale accesa mi incamminai mentre il campanile, giù in paese, scoccava le 21:30.

La strada era lunga.

Per i primi quarti d’ora camminare nel buio è sempre piacevole. La lucidità che non aveva abbandonato il corpo mi lasciava serenamente concentrato su quell’unico fascio di luce che illuminava i pochi passi da percorrere di fronte a me. Persino il suggestivo panorama delle luci tremolanti dei paesi sottostanti era una visione che mi scaturiva serenità. Sapevo però che non sarebbe durato molto.

Il sentiero si appoggiava su pendenze molto decise, lungo una costa poco erbosa a cavallo fra due neri e bui crinali. Ancora sentivo il rumore di qualche macchina che correva sulla provinciale, giù a valle, a scavare un solco in un silenzio irreale.

A tratti mi permettevo di spegnere la luce frontale anche se la notte era senza luna, il chiaro dei bagliori dei paesi consentiva di vedere il tracciato dei bianchi sassolini che si inerpicavano fra i ciuffi d’erba.

Le forti pendenze e la solitudine fecero il loro corso e la piacevole lucidità dei primi momenti venne offuscata dal dolore alle gambe e dal respiro affannoso. Il campanile aveva da poco scoccato le 22. Sapevo che il rumore delle campane e delle auto sarebbe sparito molto presto. Da solo, al buio e affaticato, qualsiasi compagnia poteva fare la differenza.

La strada era ancora lunga.

Finalmente la salita terminò. In mezzo ad un prato circondato da boschi e da una baita, con la luce spenta, si sentì il veloce fischio di un camoscio. Il buio e la paura nascondevano quasi tutta la curiosità dell’animale nel vedere una persona a quell’ora di notte.

Non appena imboccai un nuovo sentiero il solito pensiero mi colse: la strada è ancora lunga.

Questa volta accompagnato da due nuovi inseguitori: paura e sconforto. Non ho paura di perdermi. Conosco a memoria ogni curva del tracciato, ma se il corpo dovesse cedere nessuno mi potrebbe aiutare. E se cedesse anche la mente...

Lunghi minuti di silenzio, attesa e sforzo, fino a metà percorso. Il momento di una pausa fisica e di un ristoro mentale. L’orologio segnava le 23:33. “Il passo rispetta la tabella di marcia, ma che brutto orario per essere qui!”, pensai.

Cosa ci faccio io qui? Perché ho deciso di cacciarmi in questo guaio? Agli altri non devo dimostrare nulla, nemmeno a me stesso. “Forse potrei dormire qui”, ormai i pensieri uscivano dalla bocca senza che me ne accorgessi. Dopo tutto quel silenzio anche una breve frase, detta piano, aveva un rumore assordante.

La strada è ancora lunga… “Ma alla fine ci posso arrivare”, aggiunsi questa volta.

Un lungo traverso in falsopiano, boschivo, silenzioso, accompagnato solo dal suono di campanacci ciondolanti di qualche mucca poco più a valle. L’ennesimo fischiare di un camoscio fra le foglie divenne dolce, dolcissimo.

Sapevo di essere quasi arrivato, mancava l’ultimo strappo. Un sentiero di tornanti che mai apparve così infinito.

Un urlo sconsiderato di gioia, dolore e rabbia, con l’ultimo fiato rimasto: eccolo lì, l'arrivo.

Un prato mi si aprì davanti, timidamente circondato da pini radi e bassi, bucato da due piccole pozze per la raccolta dell’acqua. La solita baita, sempre deserta. Un luogo silenzioso anche di giorno, ma che quella notte mi abbracciava, lo consideravo casa. L’orologio scoccava l ‘una. La strada era finita.

Poco sopra, quel prato scollina libero a est verso cui si aprì un mare blu, nero e grigio che presto si sarebbe tinto della sua alba.

Un pino ed una betulla che si guardavano l’un l’altro divennero l’appiglio per l’amaca. Mi ci infilai con il sacco a pelo. Per onorare il traguardo raggiunto, mi arrotolai una sigaretta e stappai la birra che mi ero portato. Funzionarono come ottimo placebo per la notte.

Quella notte non scorreva così veloce: la temperatura piano piano scendeva, il buio non era così terso e permetteva di vedere attorno a sé, ma inconsciamente il sonno prevalse su ogni cosa.

Dopo un sonno spento, troppo profondo per fare affiorare qualsiasi sogno, all’improvviso mi svegliai e il cielo stava schiarendo. Il mio sguardo si rivolse immediatamente verso est dove, filtrato dagli spogli rami di alcuni faggi, il giorno prendeva colore. Il cielo era un trionfo. Sopra la lunga cresta dei monti una fascia color arancione la percorreva, sottile ma resa omogenea da una leggera foschia. La volta celeste, che durante la notte era trapunta di stelle, ora irrompeva come una scala cromatica irripetibile: dall’arancione sfumava in tonalità di azzurro e blu. Colori unici dal più chiaro al più scuro man mano che lo sguardo si voltava verso le creste a ovest.

Provai gioia autentica, immensa ed innocente. Come si poteva provare emozioni cosi fuori dall’ordinario per una cosa così semplice? Nessun altro posto avrebbe potuto darmi quella medesima sensazione; essere lì, in quel momento, all’addiaccio. La gioia mi rilassò tanto che il sonno prese di nuovo il sopravvento. Quanto tempo passò non lo seppi mai, ma quando riaprii gli occhi ecco che proprio di fronte a me il primo spicchio di sole spuntava dietro la montagna. Mi era risvegliato nel momento preciso, nel momento migliore e in modo del tutto naturale: capii che forse c’era un ordine naturale in tutte queste cose che premiava chi lo sapeva rispettare, come un padre severo ma amorevole. Come quel primo sole che mi accecava ma allo stesso tempo mi scaldava. Capii che ero partito per quel preciso momento, ma che quell’istante non avrebbe significato nulla senza quella lunga notte di fatica, freddo e solitudine amara da ingoiare. Tutto ciò che successe nelle dieci ore precedenti stava contribuendo a rendermi felice. Avevo dato tanto, ma ora stavo ricevendo più di quello che mi immaginavo.

Il sole continuava a salire spazzando via il freddo col passare lento dei minuti e delle ore. Il suo calore abbracciava ogni cosa: ogni filo d’erba, ogni albero e ogni parte del mio corpo. In quel luogo tutto era fermo. Furono ore di silenzio, i pini si lasciavano accarezzare dal vento e dal rumore delle loro fronde sembravano goderne. Suoni nuovi, come un corvo ed una cornacchia scoperti in amore su un ramo.

Tutto così semplice, cosi vero e per questo puramente bello. Ad un certo punto una mosca mi si posò sulla mano. Per quanto mi muovessi la mosca restava li appoggiata, senza dare il minimo fastidio. Se ne andò solo quando lo decise lei, perché sapeva che la mano che la ospitava non l’avrebbe mai uccisa.

Questo forse era un vero scambio di buon senso. Chissà se e quanto questa nuova presa di coscienza mi sarebbe rimasta impressa nella mente.

Intanto avanzava l’imbrunire del giorno, diverso dalle ore precedenti solamente per la posizione del sole nel cielo. Era giunto il momento di tornare a casa, pensai: la strada è ancora lunga.